15 agosto 2013

Il libro che ho appena terminato di leggere

Questi uomini in camicia nera, d'altronde noi li conoscevamo. Per farsi coraggio essi avevano bisogno di venire di notte. La maggior parte puzzava di vino, eppure a guardarli da vicino, negli occhi, non osavano sostenere lo sguardo. Anche loro erano povera gente. Ma una categoria speciale di povera gente, senza terra, senza mestieri, o con molti mestieri, che è lo stesso, ribelli al lavoro pesante; troppo deboli e vili per ribellarsi ai ricchi e alle autorità, essi preferivano di servirli per ottenere il permesso di rubare e opprimere gli altri poveri, i cafoni, i fittavoli, i piccoli proprietari. Incontrandoli per strada e di giorno, essi erano umili e ossequiosi, di notte e in gruppo cattivi, malvagi, traditori. Sempre essi erano stati al servizio di chi comanda e sempre lo saranno. Ma il loro raggruppamento in un esercito speciale, con una divisa speciale, e un armamento speciale, era una novità di pochi anni. Sono essi i cosiddetti fascisti.

Ignazio Silone, Fontamara.

12 agosto 2013

Sant'Antonio Abate



Dunque oggi, preso da un pò di magone, sono uscito da casa di mia madre e sono disceso lungo l'Arenaccia, per poi piegare verso Corso Garibaldi. Lì ho vagato per un pò, per poi infilarmi in un budello dietro la vecchia Pretura, e mi sono ritrovato nella piazzetta dalla quale inizia via Sant'Antonio Abate, la strada fuori mura che un tempo conduceva da Porta Capuana alla chiesa angioina di Sant'Antonio Abate. Il "buvero", ossia il borgo di Sant'Antonio, ha mantenuto nel corso del tempo una sua immagine affollata, densa, eppure povera, e forse solo chi sa cosa è il mercato di Ballarò può farsene un'idea senza averlo visto. Un tempo era un triangolo di orti e taverne che esibevano la frasca, ma già nel seicento, data la presenza delle osterie, e degli altri due o tre mestieri che a queste immancabilmente si accompagnavano, era una zona con una brutta fama. Che ha saputo conservare nel tempo, impermeabile a cose come l'unità d'Italia, il positivismo, lo sbarco dell'uomo sulla luna, internet, e il fine scarto semantico tra zoccola e escort.
A me piace tanto percorrere via S. Antonio Abate, farmi colpire dal nauseabondo odore di carne avicola che marcisce nel caldo estivo all'esterno di una polleria, leggere stupefatto marche di tonno mai sentite prima ("Mare Aperto"), guardare le ciabatte a tre euro, essere spinto da ogni lato dalla folla, dare un'occhiata ai film e alla musica piratata, studiarmi le bancarelle con le sigarette di contrabbando (cinque in una manciata di metri). Al confronto, la centralissima Forcella sembra Via della Spiga. Di lato si innervano strade e microscopici vicoli dai nomi evocativi, spesso con un complicato andamento topografico a saliscendi. Vico Tutti Santi, vico Crispano (quello della famosa taverna), vico Pergole (appunto quelle della taverna del Crispano), via Santa Maria Avvocata. Sono una sequenza non interrotta di negozietti, officine meccaniche di pochi metri quadri, abitazioni a livello della strada (i bassi), parrucchiere africane, mercerie, fabbri, idraulici, prostitute, salumerie, aggiusti di sartoria, orologiai, mercerie, gli immancabili travestiti che un tempo arriffanavno, cioè campavano tenendo banchi della tombola durante tutto l'anno, e poi preziosissimi portalini che proteggono scalette di piperno, vezzose edicole sacre, sorprendenti cortili pieni di verde, palazzi nobiliari, insalubri portoni nei quali non è mai entrata la luce, rumore dalle radio a tutto volume, motorini che vanno avanti e indietro, richiami tra la folla, bimbi che ti passano tra i piedi. Ma a parole non si può descrivere, non si può dire: bisogna andarci, sentire gli odori, essere ferito dai suoni, guardare i colori della pelle.
Il fatto è che, nel suo rifiuto di ogni norma, nella sua regolata anarchia, la zona di Sant'Antonio Abate rappresenta senza dubbio il simbolo della resistenza del popolo napoletano alla modernità, la trincea di un modo di vivere che fece dire a Curzio Malaparte che Napoli era l'unica città dell'antichità che non fosse perita come Ilio o Ninive. Per me, poi, è in primo luogo il ventre di pietra, il grembo di tufo e piperno, la matrice di basalto e di ombra dove ho scelto che andrò a invecchiare, e morire, un bel giorno.

28 febbraio 2013

Il libro che sto leggendo.

Tarrou, poi, sembrava essere stato favorevolmente colpito da una scena che si svolgeva sovente sul balcone dirimpetto alla sua finestra. La camera, infatti, dava suna viuzza trasversale, dove i gatti dormivano all'ombra dei muri. Ma tutti i giorni, dopopranzo, nelle ore in cui l'intera città sonnecchiava nel caldo, un vecchietto appariva a un balcone, dall'altra parte della strada. Coi capelli bianchi e ben ravviati, dritto e severo nei suoi abiti di taglio militare, egli chiamava i gatti con un "micio, micio" dolce e insieme distante. I gatti levavano dal sonno gli occhi pallidi, senza muoversi ancora. L'altro stracciava dei pezzetti di carta al disopra della via e le bestie, attirate da quella pioggia di farfalle bianche, venivano avanti in mezzo al selciato, tendendo una zampa esitante verso gli ultimi brandelli di carta. Il vecchietto sputava allora sui gatti con forza e precisione; se uno degli sputi raggiungeva il bersagio, rideva.

Albert Camus, La peste.

13 gennaio 2013

L'odore dei libri

In comune con mio fratello e con mio cugino più grande ho l'abitudine, se non proprio la mania, di annusare i libri. Se entro in una libreria, e una copertina mi attira, sollevo al naso il libro scelto, faccio scorrere le pagine e poi aspiro, perchè prima di acquistare un libro devo sentirlo anche con l'olfatto, dopo averne apprezzato l'aspetto ed il contenuto. Quando cammino per casa e trovo un libro fuori posto non mi lamento del disordine: lo sfoglio, e nel girare le pagine lo annuso, per poi posarlo di nuovo. E a letto, con il desiderio di leggere, allungo la mano sul comodino di fianco a me, afferro uno dei libri lasciati a metà che ci sono sopra, lo apro, ci ficco il viso in mezzo e inspiro profondamente prima di iniziare. E' una cosa, questa, che faccio in maniera del tutto automatica, senza starci a pensare, e dopo che l'ho fatta, non prima, perchè ancora non so che sto per annusare, mi accorgo che mi piace terribilmente. In maniera compulsiva posso tornare a farla più volte di seguito, nel tentativo di rinnovare il gusto che mi ha colpito e che, mi accorgo a volte, comincia a disperdersi evaporando con lo scorrere delle pagine, diventando via via più debole.

(ecco, l'ho appena rifatto: ho annusato, sovrappensiero, il manuale di visual basic che ho accanto, sulla scrivania).
 
Credo che io potrei riconoscere i libri a occhi chiusi, dal loro odore. Cioè, non proprio i libri, quanto piuttosto la collana, l'editore, l'epoca di stampa, questo sì. Bendatemi, magari. E poi, come Michele, quello del Glen Grant, mettetemi sotto il naso un Oscar Mondadori stampato a metà degli anni sessanta. Quelli la cui copertina è di cartone un pò rigido. E il cui odore ha una nota iniziale acuta, di polvere secca, che arriva per prima dritta tra gli occhi, e che poi si trasforma in qualcosa di cupo e profondo, che matura nel fondo del vostro naso, quasi all'altezza della gola. La copertina degli Oscar, a partire degli anni settanta, è diventata flessibile e cedevole, e il profumo è maturato, diventando meno acuto all'inizio, ma nel contempo perdendo di profondità e ricchezza di bouquet. I Tornesi di Avagliano hanno una nota basica, quasi un sentore di ammoniaca, che non sentite con la punta ma piuttosto con il fondo del naso. Nella BUR, almeno in quelli stampati prima del duemila, vi è una nota come legnosa, a volte sandalo o qualche altra preziosa essenza, e la porosità della carta usata, che ingiallisce facilmente, sembra fatta apposta per trattenere bene la polvere. Gli Struzzi Einaudi hanno un sentore debole ma persistente, non cupo, forte quando sono nuovi, e la carta si mantiene spesso bianca a lungo. I Tascabili Bompiani, con i loro inconfondibili font, sono sorprendentemente simili nel profumo alla Biblioteca Universale Feltrinelli, pur avendo una carta più spessa. I vecchi Urania Mondadori, invece, hanno una nota fresca, inalterata nel tempo, lievemente metallica ma deliziosa. Electa Napoli ha una nota alta, di testa, che sentite bene alla radice del naso, di carta lucida, lussuosa, poco acida e destinata a conservarsi a lungo.

(l'ho rifatto ancora: questo manuale McGraw-Hill ha sentori fruttati fantastici)

Sì, decisamente posso riconoscere i libri a occhi chiusi, dal loro odore. E sono come la mia madaleinette, a volte. Aspiro, e si presenta alla mente un ricordo, torna un'immagine. Me bambino, in spiaggia, salgo le scale che dallo stabilimento balneare portano sulla strada, e ho un Topolino sotto il braccio. O ragazzino, che compro Gli dei e gli eroi della Grecia di Kerényi, scegliendolo dalla vetrina di un giornalaio, in un altro posto di vacanza. Oppure apro la busta di plastica nella quale, per non farmi beccare dai miei, che dicono che butto via i soldi, ho nascosto un commento al De anima di Aristotele, stampato a Tolosa nel 1614, e vengo colpito dall'afrore di quasi quattrocento anni di mani che lo hanno manipolato, e della pelle malamente conciata della copertina. Me in biblioteca, all'università, che leggo Dov'eri Adamo di Boll, mentre aspetto un professore per fare l'esame. Bastogne di Brizzi, arrotolato e infilato nella tasca posteriore dei jeans mentre servo ai tavoli della pizzeria durante la Festa dell'Unità. Giornale di adolescenza, di Enzo Striano, sul comodino di mia madre, quando ancora stava bene. E Il Signore dell'Universo, di R.F. Jones, un brutto libro di fanstascienza letto da mio padre tutto in una notte, seduto al tavolo in cucina, tenendolo dritto con entrambe le mani davanti a sè. Riconoscere la mia madaleinette, ad occhi chiusi.

31 dicembre 2012

I nostri Lari

L'ambientazione del presepe popolare napoletano è fissata poeticamente in una atemporalità non astratta ma concreta. Un paesaggio ai limiti del centro abitato, in una zona dove l'intensa urbanizzazione, scale case taverne pozzi il mercato e i relativi mestieri, si mescola con i segni della campagna, la stalla gli attrezzi dei campi e gli animali domestici, e con i segni della natura non ancora intaccata dalla mano dall'uomo, le cascate i monti e gli alberi dai rami ritorti. In maniera apparentemente incongrua, in un eterno presente suggerito dalla fissità dell'ora e delle pose, sul presepe è rappresentato il legame tra la vita interiore nostra e di chi ci ha precdeuto, e personaggi contemporanei coesistono con figurine abbigliate all'antica, vestite come personaggi del '700 e dell'800, in atto di attendere ai loro antichi mestieri. Proprio questo insistere su antichi abiti, e su lavori che non esistono più, sul tempo che non scorre, mescolando ciò che è antico a ciò che è più recente, e che merita di essere ricordato, fa pensare al presepe come a un ritratto di famiglia, a un albero genealogico.
Nell'antica Roma, gli spiriti benevolenti degli antenati erano venerati come Lari, ed erano rappresentati sotto forma di statuine di creta, poste in casa all'interno di un'edicola detta larario. Da lì, i Lari proteggevano la famiglia nei passaggi più delicati della vita, e ad essi si facevano semplici sacrifici in occasione di matrimoni, nascite, partenze. Al termine dei Saturnalia ci si scambiava ogni anno delle figurine di terracotta, dette Sigillaria, rappresentanti proprio i Lari. E questa festa cadeva alla fine di dicembre, vicino al solstizio d'inverno, proprio nello stesso periodo in cui noi prepariamo il presepe.
I personaggi del presepe sono dunque i nostri antenati, i nostri poetici Lari. Non tanto quelli della nostra famiglia stretta, ma i Lari della nostra comunità, che ci accompagnano nel momento di passaggio che segna il punto più basso nella traiettoria annuale del sole, e il periodo più buio e carico di attese dell'anno.


28 dicembre 2012

L'eleganza del riccio


Mio fratello abita in un vecchio palazzo vicino alla stazione dei treni. Antica zona operaia, e di piccoli e numerosi negozi di quartiere. Ad un'estremità dell'area c'è la grande officina che venne difesa armi in pugno dai lavoratori, quando i nazisti tentarono di farla saltare in aria. Dall'altro lato, una piazzetta per sesso a venti euro alla botta, e poi il corso con il passeggio e i negozi d'abbigliamento della povera gente. Solo di recente la modernità si è insinuata nella strada di mio fratello usando come avamposto un piccolo supermercato, che ora occupa i locali di quello che fu un cinema, e un ristorante cinese. Un tempo, d'inverno, lungo la strada vendevano le caldarroste: mio padre, insieme a mio zio, se ne riempiva le tasche, e poi nelle tasche ci infilava le mani, perchè entrambi non avevano abbastanza soldi per comprare i guanti. Mentre fuori dei bassi le vecchine, per arrotondare, mettevano dei pentoloni nei quali cuocevano continuamente spaghetti che servivano senza condimento agli operai durante lo spacco, solo acqua sale e pasta.
Nell'androne del palazzo di mio fratello, mai ridipinto, cupo e fuligginoso, c'è la rampa che sale al pianerottolo di riposo, e poi quella che monta al piano superiore. Sotto quest'ultima, la portineria: una specie di sgabuzzino, con la porta a vetri nella cornice di legno, vecchie tendine e uno scuro per darsi un pò d'intimità. Dalla porta a vetri si intuisce, anche se a malapena, che la portineria in realtà è un cucinino, con i piccoli pensili in formica, il tavolo che occupa quasi tutto l'ambiente, il fornello alimentato da una bombola a gas, il calendario gentilmente offerto dal ristorante cinese appeso alla parete, la piattaia a vista sul lavello, il soffitto inclinato che segue il profilo della rampa. E dietro il vetro, la portinaia, piccola e grassa, dai grigi spessi capelli scorbuticamente piegati nelle più diverse direzioni.
Tutte le volte che entro la ritrovo eroicamente fissata nella medesima posizione: seduta al tavolo, ha fatto una stesa con una dozzina di carte napoletane, ingobbate e appesantite dal continuo sfregare con le dita, ed esegue un solitario sotto la luce giallognola del suo cucinino-portineria. Sono arrivato a chiedermi se sia io a rivivere sempre la stessa scena, come un film di un pò di tempo fa, oppure se lei passi davvero tutto il suo tempo così, e magari la stessa partita sia in corso da anni. Il portone ha la porticina di servizio, che è quella usata ordinariamente, per cui nell'entrare ci si deve un pò piegare e abbassare la testa, e mentre voi passate attraverso il piccolo vano già percepite in qualche modo che dietro la porta a vetri la sua attenzione si è destata, e potete quasi immaginare il grugnito che deve avere eseguito sollevando la testa per guardarvi. Ma, forse, sarà l'inchino che ogni volta che attraverso la porticina sono costretto a farle a predisporla bene nei miei confronti, sta di fatto che quando le indico, non le dico, che sto salendo da mio fratello, la sua espressione severa si ammorbidisce, e lei si limita ad accennare a malapena un sorriso che ha una sua ruvida dolcezza, muovendo impercettibilmente la testa per farmi sapere che ha capito, e che posso passare. E io mi sento un pò come in quel libro che parlava di un riccio.

23 dicembre 2012

Presepe popolare napoletano (il mio)








Il teschio sulla colonnina


Lo guardo sempre di sfuggita, ogni volta che passo e c'è quella porta aperta. Ma è solo un attimo: devo camminare oltre e non fermarmi, perchè si tratta pur sempre di una casa, e tu ci puoi giusto buttare uno sguardo distratto, non puoi piantarti lì a osservare. Dalla porta aperta del basso si intravede sullo sfondo uno di quei mobili soggiorno anni '50 con specchiera, di quelli orrendi, dai quali qualche vecchia zia provvidamente faceva sempre saltare fuori una bottiglia di Strega, le caramelle, e i bicchieri del servizio buono. E poi di fianco al mobile i fornelli di una compatta cucina moderna. E le sedie da cucina e l'incerata sul tavolo. Senza ordine, la casa me la studio per pezzi, ogni volta che l'occhio di sfuggita si posa su un nuovo dettaglio. Il gabinetto con la porta a soffietto accanto ai fornelli della cucina. Il televisore appeso a un braccio ancorato nel muro. Un lampadario finto antico. L'unico abitante: un uomo tarchiato e con gli occhiali, con i baffi come Hulk Hogan, in canottiera e bandana tutto l'anno. Un cane che esce ed entra dal basso. Una pianta nel vicolo, immediatamente fuori la porta.
E poi questa testa, proprio sull'ingresso. Una colonnetta di quelle che le nonne tenevano in un angolo della stanza da letto, con sopra la Madonna di Lourdes. E al posto della madonnina, un teschio. Di pietra, a grandezza naturale, rivolto verso il vicolo, che osserva fuori con le sue orbite vuote. E io non so se protegga la casa, o sia utilizzato per trarne auspici, magari con strani diesgni tracciati intorno. A volte penso che, guardando fuori, mi interroghi mentre passo.

04 dicembre 2012

Storiella con morale (nascosta)

Mezzanotte. All'improvviso, durante il pranzo a corte.

(Inseguendola per le scale del palazzo) - Cenerentola... Cenerentola! Cenerèèèè... la scarpetta!
(Saluta fuggendo) - Principe, che v'aggia dì.... fatevela alla salute mia!

02 dicembre 2012

Un tuffatore

Fu ritrovata il 3 giugno del 1968, in una località detta Tempa del Prete, nei pressi di Paestum. Tempa, parola locale che non significa solo mezza collina, ma che richiama un terreno sufficientemente articolato ed impervio da farti dire che lì è terminata ogni estrema propaggine delle piccole realtà urbane del Cilento di lingua greca, ed inizia qualcosa d'altro. Un luogo di confine. Dov'è giusto che siano i morti: non così vicini, da impicciarsi degli affari dei vivi, non così lontani da non potere essere rcordati, onorati, e magari potere partecipare almeno con l'incoraggiamento e il ricordo delle loro imprese alla difesa dai nemici esterni. Tempe piene di sole, torride d'estate, immerse nel canto delle cicale che impazzite si sfiniscono, e tenebrose d'inverno, con fiumi d'acqua che le percorrono e le scavano in profondi solchi. Terre percorse da etruschi, greci, lucani. Contese. Terre di mezzo.


La tomba del tuffatore è una tomba a cassa, che sulle quattro pareti verticali porta degli affreschi rappresentanti scene di convivio. Sui triclini, adagiati su morbidi cuscini, uomini che si amano, eraste ed eromene, che bevono fino all'ubriachezza, la testa ciondolante all'indietro, che suonano la lira o i flauti doppi, o che giocano a kottabos. Tutto ciò che si può desiderare dalla vita bella, dagli amici, dagli amanti, dal cibo e dal bere. E poi, scene che girano tutt'attorno in un contesto realistico e arredato, i calici appoggiati su tavolini bassi accanto ai triclini, giovani servitori pronti ad attingere da un grosso cratere, un amico atleta che si attarda, al ritorno dall'allenamento, e che ultimo si aggiunge al convivio. Tutto ciò che forse si è avuto, e che si sta per abbandonare. L'ultimo sguardo alla vita che è stata, non come rimpianto, ma come volersene riempire gli occhi, per sempre. Per poterla salutare fino in fondo.


Ma è la lastra di copertura che ti sorprende, e che segna una cesura rispetto a quell'altra narrazione. Essa reca l'affresco che ritrae un giovane che si tuffa nell'ondulato mare, in una cornice di foglie d'acanto. Dietro di lui, un podio, quasi un trampolino, alto, in cima al quale forse è stato difficile arrivare. Forse le colonne d'Ercole, limite di tutto ciò che si sa. Tutt'attorno un'atmosfera rarefatta, stilizzata, sottolineata da fiabeschi alberi immobili nella luce abbagliante. E poi il tuffatore, nudo, con un'espressione serena, che testa in avanti compie il salto.
L'ultimo tuffo, con fiducia, nelll'ignoto. Di là dello specchio d'acqua, al di sotto del quale non si può vedere, nessuno sa cosa ci sia.


Qual è il più moderno?

Elmo apulo-corinzio, V. sec. a.C., Montescaglioso (MT)

Sant'Elmo, Mimmo Paladino, XX sec. d.C., Napoli.




23 novembre 2012

Maya vs Israele: 0 a 1

Alla fermata della metropolitana salgono un padre e una figlia e si siedono giusto di fronte a me, continuando una discussione iniziata fuori dalla metropolitana. Ne sono incuriosito, quando sento la parola "maya". Lui spiega alla figlia che già si sente nell'aria qualcosa, una certa vibrazione, ora che il fatidico 21 dicembre 2012 è vicino, e che probabilmente ci sarà un grande cambiamento. Lei parla di clima, e riscaldamento globale. Anche se poi lui ha sentito da un giornalista alla TV che forse i Maya sbagliavano, perchè il 2112 dovrebbe essere ancora più interessante, data la simmetria della data. Lei annuisce convinta.
Io non ce la faccio più. Mi sporgo in avanti e dico: - Per il calendario ebraico siamo quasi al 5800, e il 2012 è passato da quasi 4000 anni. Per cui, sentite a me, pensate alla salute e state sereni.
Sorrido, e mi alzo per scendere alla mia fermata. E loro mi guardano come se io fossi pazzo. Io.

17 novembre 2012

Questi ragazzi così puri




I ragazzi che ho visto in strada sono puri, perchè le loro motivazioni sono pure. Quello che mi ha davvero colpito delle proteste di questi giorni è che non si tratta del disagio esistenziale di alcuni, tutto personale, che si è contaminato con un certo spirito dei tempi o con culture accademiche, verbalmente violente per la troppa considerazione di sè: io non vedo in giro cattivi maestri.
Nè si è trattato dell'eccesso di testosterone di gente annoiata, che si è incrociato con culture politiche neanche tanto marginali: ambienti abitualmente maneschi, contestatori, hooligans dentro e fuori movimenti più o meno organizzati. Non ho visto niente di tutto questo nelle proteste di questi giorni, perchè le motivazioni dei ragazzi mi sono sembrate più pure, quasi elementari.
I ragazzi protestano, e protesteranno sempre di più nei prossimi mesi, perchè non stanno bene. Innegabilmente, non vivono più bene. E non si tratta solo di conservazione. Certo, in un certo qual modo questi ragazzi protestano anche per la conservazione, perchè magari vedono lo stato sociale ridursi, con la sottrazione di ciò di cui hanno goduto fino a poco fa non solo i genitori, ma anche i fratelli più grandi. Vedono un sistema del lavoro inselvatichito, brutale, con paghe bassissime e orari infiniti, fatto di contratti atipici, con sempre meno garanzie. Vedono meno professori a scuola, meno infermieri al servizio dei malati a casa, meno trasporto pubblico. E protestano, anche per conservare quel poco che di tutto ciò è rimasto.
Ma quel che è davvero importante, ciò che li induce a una rabbia vera, senza allegria, quella che magari caratterizzava le contestazioni di una volta, è il vedere restringersi davanti a sé il numero delle strade possibili, delle opzioni di vita. Sanno che dovranno lavorare di più per ricevere di meno, mantenendo un esercito di pensionati, a volte con pensioni congrue. Sanno che avranno più difficilmente accesso al mercato del credito.
Sanno, perchè ne hanno sentito parlare, che un tempo studiare consentiva di fare un passo avanti e di provare a salire qualche piano della società sfruttando l'ascensore sociale: oggi laurearsi non consente ad un ragazzo di guadagnare più del padre operaio. Sanno che un tempo fare impresa poteva significare assumere, ingrandirsi in un orizzonte conomico in espansione, mentre oggi si apre una partita IVA per lavorare per un unico cliente, che in realtà è il datore di lavoro occulto.
Sanno che collettivamente, in quanto generazione, sono stati abbandonati da adulti che non li educano più, che non parlano loro, che non insegnano un mestiere o semplicemente l'arte di crescere. Sanno che il passaggio del testimone da una fase all'altra della storia è stato lasciato in sospeso da uomini e donne, quelli che avevano venti anni all'alba degli anni '70, che non vogliono invecchiare, che vogliono conservarsi in eterno, che vogliono avere fidanzate giovani, che vogliono mantenere le leve del comando anche se hanno minori energie, minori idee e più ristrette, che non sono più capaci di sacrificio di sè. Sentono, i ragazzi, che si è sostanzialmente smarrita l'idea di progresso, l'idea stessa dell'amore verso chi viene dopo in linea temporale, che un tempo nutriva una società in espansione, che cercava di produrre di più, di fare cose più grandi, più veloci, che coinvolgessero più persone, convogliando l'esperienza da una generazione all'altra. In una parola, i ragazzi protestano perchè quel che della società è stata smarrita è l'anima, la capacità di immaginarsi domani.
Il grido di questi ragazzi è appunto il dolore dell'anima che viene strappata via dai corpi. Perchè l'anima non è la capacità di essere sentimentali o di provare sensazioni, ma è il coraggio di progettare il futuro, e di accompagnare per mano una generazione in questo futuro. E questi ragazzi, così puri, così elementari nella loro richiesta di essere amati collettivamente in quanto giovani, è contro il loro abbandono in un domani oscuro, nebuloso, che oggi urlano prendendo le botte dai poliziotti.

24 ottobre 2012

Circa la condanna degli esperti della Commissione Grandi Rischi

La frase della Commissione Grandi Rischi "è tutto normale", rende efficacemente conto del fatto che solo 5 sciami sismici su 100 danno luogo a un forte terremoto: guarda caso, il limite del 5% è proprio il limite usualmente usato nella letteratura scientifica in ogni possibile contesto per sceverare ciò che è normale da ciò che non lo è. Quindi la situazione si poteva definire, nei limiti delle conoscenze disponibili, normale, con riferimento alla posssibilità che potesse avvenire il BIG-ONE.

L'evacuazione di una città (anche piccola o media) comporta svuotare gli ospedali di malati gravi e gravissimi per spostarli altrove, e ricoverare in maniera arrangiata (Berlusconi lo chiamò campeggio) anziani e bambini: tutto ciò comporta sicurissimi danni alla salute di alcune fasce deboli a fronte di incerti vantaggi. Si moltiplichi questo danno alla salute per tutte le volte in cui il giochetto avviene inutilmente (e cioè 19 volte su 20), e si capirà quali siano i rischi di ingenerare falsi allarmi anche solo in maniera preventiva. E fosse solo questo.

Il punto è che la probabilità del 5% che a uno sciame sismico segua una scossa forte significa che esiste la probabilità del 60% che possano esserci 10 sciami sismici consecutivi senza che alcuno di essi sia seguito da una forte scossa. Ciò equivale a dire che, se si evacuassero 100000 persone ogni volta che avviene uno
sciame sismico, la probabilità di evacuare 10 volte CONSECUTIVE queste 100000 persone in maniera del tutto inutile è del 60%.
E' molto probabile che davanti a falsi allarmi ripetuti in Italia (svuotare una città ogni volta che avviene uno sciame sismico, con tutti i disagi relativi), le popolazioni comincerebbero ad abituarsi a questo "al lupo al lupo", pensando (a ragione) che tali grandi manovre siano inutili. Ottenendo il bellissimo risultato di rendere le popolazioni inerti e meno collaborative, magari in presenza di pericoli più certi (penso ad esempio al rischio vulcanico nell'area napoletana). Così magari si evitano 300 morti in una località, una volta, per poi farne un cinquecentomila in un'altra solo per il continuo succedersi dei falsi allarmi. L'ho scritto per quei fessi che pretendono che la Commissione Grandi Rischi desse il consiglio di evacuare (decisione che comunque avrebbe dovuto prendere la Protezione Civile, cioè l'organo politico).

A L'Aquila le morti sono state senza eccezione alcuna provocate da una edilizia che non sarebbe difficile definire scadente e di scarsa qualità, anche in assenza di terremoti (si veda il caso della Casa dello Studente, o le numerose palazzine moderne su pilotis, senza elementi di tamponatura che assorbono energia durante il sisma). Dato che il parere scientifico della Commissione Grandi Rischi (la situazione è nell'ambito delle conoscenze attuali "normale", con riferimento alla possibilità che avvenga un forte terremoto)  mi pare comunicato in maniera ineccepibile, il problema si sposta sulla Protezione Civile: durante uno sciame sismico, non è bene come misura di routine che gli ingegneri civili facciano uno screening di alcuni edifici critici? Una semplice azione preventiva come questa, che non ha niente a che fare con l'evacuazione di intere città, avrebbe individuato le criticità (appunto, la Casa dello Studente) e avrebbe evitato numerosissime morti.  Ma è quanto evidentemente la Protezione Civile, i Vigili del Fuoco, il Genio Civile eccetera pare non fecero.

Per altro, questi controlli di routine (un atto dovuto in presenza di uno sciame sismico, che per definizione sta danneggiando un pò alla volta e progressivamente gli edifici), non avrebbero avuto bisogno di alcun avallo da parte dei sismologi, ricadendo nelle normali e dovute competenze della Protezione Civile. Controlli che ci sarebbero dovuti essere anche se i sismologi avessero dichiarato "è sceso l'angioletto dal cielo e mi ha detto che lo sciame cessa oggi alle 18:35").

A mio parere la condanna è stata ingiusta, e i condannati sono chiaramente martiri dell'oscurantismo nel paese che già si distinse per la condanna a Galileo. Riconosco che il giudizio non è, almeno a chiacchiere, contro la scienza. Ma senz'altro è contro il metodo scientifico, e l'uso, nella scienza e nell'analisi del rischio, di probabilità e ragionamenti articolati, che mal si adattano alla richiesta da parte della società (giudici compresi) di concetti che possano essere comunicati in ascensore nel viaggio tra un piano e l'altro.

17 ottobre 2012

Diario di bordo universitario

 
Diario di bordo del 17 ottobre 2012.
Le perturbazioni atmosferiche hanno reso nei giorni scorsi difficoltosa la nostra navigazione a vista, tra ondate di circolari ministeriali e banchi di studenti che cercano dove spiaggarsi: ogni tanto ne peschiamo uno e lo mangiamo per la fame. E' il tredicesimo giorno senza carta igienica all'università, e alcuni ammutinati hanno paventato la possibilità di utilizzare alla bisogna gli inutili comunicati di ANVUR (agenzia nazionale di valutazione di università e ricerca). Le preoccupazioni del medico di bordo per i primi sintomi di scorbuto dovuti alla scarsa alimentazione, dopo l'annullamento dei già esigui buoni pasto, sono state spazzate via dalle più fosche previsioni relative al forzato inutilizzo delle latrine. Non vediamo ancora terra, ancorchè promessa o anche solo velatamente vagheggiata come cauta possibilità. Che Dio ci protegga.

13 ottobre 2012

Il libro che ho appena letto


"Forse noi, dico la Terra, Cassiopea, Alpha Tauri, quella stella cadente, tutti gli altri corpi e astri che vedi e non vedi, tutti noi, zodiaci e nature, siamo solo miliardi di calcoli nel rene di un corpacciuto animale, la sua colica senza fine, i quagli petrosi del suo difficoltoso smisurato emuntorio; e galleggiamo così, nell'etere e piscio che gli s'impantana per tutti i meati e lo fa gloriosamente ululare di dolore nel silenzio degli spazi eterni. E' quella che chiamano l'armonia delle sfere. ma in quanto a spostare un pezzo, lui, Dio Mannaro, non saprebbe che pesci pigliare. E' solo una bestia che vuole sgravarsi di noi, e scalcia e si scogliona senza criterio. Un rimedio gli bisoga, uno squasso o un rutto, per mano di un altro, un Ur-Gott, un archiatra più antico e vasto di lui, che ci riduca in tritume di polvere, e lo liberi, finalmente. Ma la tua morte avviene al di fuori di un tale disegno, seppure un disegno esiste che lo concerne..."

Un libro vero, che parla di una generazione perduta, sfrido umano, specchio della nostra. Un incessante dialogo con la Morte, con il convitato di pietra sempre rimosso e dimenticato, e che sempre si presenta all'ora convenuta. Di Gesualdo Bufalino, Diceria dell'untore, Sellerio.

(nell'immagine, il manifesto del film Pietà, di Kim Ki-duk)

12 ottobre 2012

"Ci vorrebbe una guerra"

"Ci vorrebbe una guerra, perchè così capireste cosa significa..."

Seguiva poi, come in quelle poesie combinatorie di Quineau (Cent mille milliards de poèmes), una a scelta tra più possibilità di asserito contenuto etico-educativo. Le occorrenze, tra le quali potere estrarre come un coniglio dal cilindro il preteso insegnamento, apparivano in ordine di preferenza come: la fame, il rispetto per i genitori, risparmiare, l'educazione, il lavoro, ma anche la stessa guerra (in modo da chiudere una elegante tautologia). Ad esempio: "Ci vorrebbe una guerra, perchè così capireste cosa significa la fame". Magari detta con scopo didascalico a un bambino che non voleva mangiare, e usata come arma finale se il pietoso "pensa ai bambini che vorrebbero, ma non hanno da mangiare" non aveva funzionato: insomma, l'augurio dello sterminio dell'umanità come conseguenza per non avere voluto finire un piatto di pasta.
Questa frase, ci vorrebbe una guerra perchè così capireste cosa significa questo o quello, l'avrò sentita miliardi di volte, quando ero ragazzino, ripetuta da anziani parenti, vecchi rincitrulliti alla fermata dell'autobus, fascisti in ciabatte di pelo e con la papalina in testa, o biliosi e cadenti pazienti in prostranti sale d'attesa. Detta e ridetta da una generazione che, nel momento di tirare le cuoia, augurava ai nipoti (di certo non ai figli, ché quelli non si toccano!) di soffrire a scopo educativo.

Poi, crescendo, a un certo punto avevo smesso di sentirla: credevo di essermela cavata. Dietro la pretesa tirata moralista in forma di invettiva jettatoria ho sempre pensato covasse una non nascondibile, perchè cospicua, quantità di invidia di certe nostre libertà. Ma delle segrete motivazioni profonde di questi menagrami in pre-decomposizione non mi è mai interessato, né può interessarmi ora. Mi preme, piuttosto, osservare che infine la "jastemma ci ha cojuto", come diremmo dalle nostre parti, ossia che l'occhio secco lanciato dai nostri antenati è dopo lunghi giri andato a segno. Ed ora questa generazione, la mia, così verbalmente tartassata, viene finalmente spazzata via da una specie di tsunami lungamente invocato dai nonni.

Ci pensavo giusto l'altro giorno, mentre facevo un pò l'appello mentale dei miei amici, delle mie amiche, e di qualche giovane familiare. Ne è venuto fuori, insieme a tanta infelicità e insicurezza, un quadro fatto di contratti atipici, di stipendi in picchiata, di partite IVA con un unico cliente (in realtà il datore di lavoro), di pure e semplici disoccupazioni, di separazioni, di figli non fatti perchè troppo onerosi da mantenere, di stanze in affitto in case condivise con studenti ben più giovani, di ritorni a casa dei genitori perchè non si riesce più a pagare l'affitto nella casa condivisa con gli studenti, in risparmi sulla salute, e poi brevi puntate al nord o all'estero per lavori stagionali, lauree sottoutilizzate, e paghette ricevute ancora a trentacinque anni per arrotondare. Insomma, la guerra che tanto caldamente ci era stata augurata si è materializzata, infine. Ma sotto forma di un lento strangolamento che si è mangiato, e si mangerà, un decennio della vita delle persone che oggi hanno tra i trenta e i quarant'anni


A questo pensavo, l'altro giorno, e mi chiedevo come mai nessuno, nei media, avesse il coraggio di dire le cose come stanno, e cioè che c'è una generazione che sta pagando per tutti, per quelli che verranno e per quelli che sono già venuti. Una generazione che deve ogni giorno guadagnarsi il diritto di rimanere in vita acquistando anche l'aria che respira. Una generazione di guerra, che cederà il posto alla prossima senza avere mai visto da vicino le stanze dei bottoni, le leve del comando, le case di proprietà o le barche a mare, o più banalmente senza avere avuto la possibilità di vivere senza per forza dovere dimostrare di meritarsela, l'esistenza in vita.

La guerra che ci era stata augurata alla fine è scoppiata, e ha anche ottenuto il richiesto tributo di vittime, e di mutilati. A questo pensavo, e mi chiedevo a che punto fosse la notte, se fossimo lontani da un'alba, e se questo processo possa essere almeno rallentano, se non è possibile fermarlo.

10 ottobre 2012

Perle di filosofia

Oggi, come faccio spesso, scartabellavo tra i libri che don Ciro, il mio spacciatore di fiducia (ne ho già parlato qui, ma anche qui), dispone sugli scaffali arrangiati del suo negozio improvvisato (in un luogo della città che ha chiesto di non rendere riconoscibile perchè altrimenti la Finanza si potrebbe interessare a lui). Chissà come, il discorso è caduto sulle elezioni, manco ricordo se si parlasse di primarie del PD o quant'altro.
"Io nun vaco a votà" ha detto. "E poi uno non sa che votare, potrebbe sbagliare." Era filosofico e, a quel che ne so, è uno che non beve, per cui mi sono interessato e l'ho guardato interrogativo. "Mo'vedete per esempio de Magistris, pareva tanto buono...", e invece?, "... e quello ha fatto togliere tutti gli ambulanti da Piazza Garibaldi..." Una pausa per creare in me la giusta suspense: "Se lo votavo potevo sbagliare!" Gli ho fatto capire che il suo ragionamento, in effetti, non faceva una piega.
Quindi, ha concluso, ribadendo la sua funzione storica, che lo ha quasi trasformato in un elemento del territorio o in un pezzo forte dell'arredo urbano: "Io nun vaco a votà. Tanto chi saglie saglie, io sto sempre cca' a vennere libri."